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Minha Casa Minha Vida

  • Aprile 2020

Minha Casa Minha Vida intervista di Andrea Rampini a Luca Meola

Luca Meola vive a San Paolo dal 2014 e in questi giorni è chiuso in casa come tutti e tutte noi. All’inizio dell’anno il suo percorso di ricerca fotografica con le comunità indigene brasiliane lo aveva portato a documentare una grande mobilitazione per contrastare il disboscamento e l’edificazione di una vasta porzione di mata atlantica, la foresta costiera brasiliana.


Sembra un secolo fa ma sono trascorsi solo pochi giorni, Luca. Fino a metà marzo stavi seguendo l’occupazione Guaranì dei cantieri della Construtora Tenda. Raccontaci come stavano andando le cose prima della pandemia.

All’inizio del 2020 una grande porzione di foresta atlantica nell’area metropolitana di San Paolo è stata venduta a una grossa società per la realizzazione di un complesso immobiliare nella cornice del programma federale Minha Casa Minha Vida. Il nuovo quartiere doveva occupare una delle ultime aree verdi della zona e si sarebbe collocato sul limitare di un villaggio abitato da circa 700 indigeni Guaranì. Alla fine di gennaio è partita una vasta mobilitazione che ha unito le comunità indigene a reti di attivisti cittadini. Dieci palazzi e 800 appartamenti. Questo per la comunità vuole dire la fine, l’estinzione, perché quanto più le comunità vivono vicine al mondo non indigeno tanto più è difficile che possano preservare lingua, rituali e abitudini. Quelli della società immobiliare sono entrati e in un giorno hanno tagliato più di 500 alberi, alcuni dei quali secolari. Allora il 30 gennaio gli indigeni hanno occupato l’area per impedire che continuasse quest’opera di disboscamento. Da quel giorno ho seguito un mese e mezzo di occupazione. Sia la quotidianità degli occupanti e delle occupanti, sia la battaglia legale e politica. È stato un lavoro lungo, faticoso, ho vissuto e dormito lì, ho seguito le manifestazioni in città, ho seguito ogni singolo giorno. Ho documentato queste intense settimane come fotogiornalista, ma inevitabilmente anche come militante.

Dopo quaranta giorni di occupazione, a inizio marzo è stato annunciato lo sgombero.

Si, lo sgombero era stato programmato per il 10 marzo. Da parte nostra c’era un grande timore, perché gli sgomberi qui generalmente avvengono in modo molto violento. Attorno all’occupazione gravitavano un sacco di donne e bambini ed eravamo tutti preoccupati. Nella notte tra il 9 e il 10 marzo la comunità si è preparata a questo momento pregando e cantando. Gli indigeni guaranì sono persone molto pacifiche, la loro resistenza è una resistenza essenzialmente spirituale. Poi c’erano gli altri. Durante un mese e mezzo di occupazione, grazie alle mie fotografie e al lavoro di altri giornalisti e attivisti siamo riusciti a mobilitare parecchia gente, e durante quella stessa notte si sono unite a noi un sacco di persone. La mattina del dieci marzo, quando all’alba si sono schierate davanti al territorio occupato le truppe della polizia militare in tenuta anti sommossa, eravamo veramente in tanti e in tante. Di solito c’è una prima linea di poliziotti, quelli con cui si discute e si media, e nelle retrovie ci sono le truppe che non hanno il nome sulla divisa, che intervengono quando non è possibile una mediazione. Quando vedi che non c’è il nome vuole dire che sono lì per picchiare, sono quelli che entrano e spaccano tutto. La preoccupazione era tanta. Durante il giorno c’è stata una mediazione continua tra i leader indigeni e la polizia, dalle 6 del mattino alle 3 del pomeriggio. La polizia aveva bloccato le strade, non arrivava acqua, non arrivava cibo. In una delle azioni, quando sembrava che i militari stessero entrando nel territorio, i guerrieri indigeni sono saliti in cima alle piante – avevano preparato acqua e cibo per rimanere lì per giorni – e le donne hanno formato un cordone attorno agli alberi. C’erano tutti i media accanto, caricare gli occupanti sarebbe stata una cosa insostenibile dal punto di vista politico e mediatico. In queste situazioni di conflitto la resistenza dei Guaranì diventa spettacolare e strategica. Davanti il cordone delle donne che cantano, con tutto il corpo dipinto di rosso. Il loro canto è una preghiera, sempre più forte ed incalzante. Dietro i guerrieri, dipinti di nero con il carbone, che organizzano un possibile attacco con arco e frecce appuntite. Per fortuna, dopo varie ore di stasi, si è arrivati a un compromesso, anche perché se la polizia fosse intervenuta in maniera violenta sarebbe stato un massacro. Si è raggiunto un accordo per cui abbiamo sgomberato l’area e abbiamo spostato il presidio fuori dai cancelli, per non permettere comunque all’impresa di entrare e di continuare i lavori. La battaglia a quel punto si è spostata sul piano legale, con un’udienza al Tribunale Federale fissata per l’inizio di maggio. Ma poi è arrivato il coronavirus.

Esatto, erano proprio quei giorni. Lo sgombero avveniva il dieci marzo, quando in Italia erano state sigillate varie regioni e il coronavirus si diffondeva rapidamente. Come vivevi tu la situazione?

Immagina la scena. Il giorno dello sgombero ero molto stanco e molto agitato. Ero fisso nell’occupazione da un paio di giorni, munito di maschera antigas, elmetto, occhiali. C’era il timore che la polizia entrasse con un’azione violenta. E noi come media dovevamo essere lì, dovevamo esserci. Avremmo documentato il possibile massacro, se le mani della polizia, e quindi dello Stato, si fossero macchiate di sangue indigeno noi dovevamo essere lì a raccontarlo. Nel contempo io continuavo a sentire l’Italia, perché quello era uno dei giorni in cui il virus si stava diffondendo di più. Ero molto preoccupato. Da giorni seguivo le vicende attraverso i giornali italiani. Anche per questo appena si è cominciato a parlare di virus qui in Brasile ho deciso di isolarmi, di uscire il meno possibile. Mi sono comprato una maschera per uscire a fare a spesa e via dicendo. Anche i sei villaggi Guaranì di San Paolo si sono autoisolati. È stata messa in atto un’operazione di salvaguardia, gli indigeni hanno deciso di lasciare il presidio e di tornare nelle loro comunità. Nessuno può entrare e nessuno può uscire. Dal 15 marzo non sono più tornato nel loro territorio.

Com’è ora la situazione in Brasile?

Da lunedì 16 marzo anche in Brasile i media hanno cominciato a parlare di coronavirus. I numeri sono ancora molto sottostimati perché stanno facendo i tamponi solo per i casi molto gravi. La situazione qui è atipica. Bolsonaro è un pazzo scatenato, pochi giorni fa in una conferenza stampa ha di nuovo minimizzato la gravità della situazione, ha paragonato il coronavirus a una lieve influenza e ha detto che se lui prendesse il virus ne uscirebbe illeso perché ha un passato da atleta. Proprio nel weekend dopo lo sgombero, siamo a metà marzo, nonostante ci fossero già provvedimenti per chiudere scuole e spazi di aggregazione, in tutto il Brasile hanno fatto manifestazioni pro Bolsonaro e lui a Brasilia è addirittura andato ad abbracciare i suoi sostenitori. Siamo a questi livelli in Brasile. Per fortuna qui c’è un governo federale e poi ci sono gli Stati. Il governatore di San Paolo, Doria, anche lui di destra, sta entrando molto in contrasto con il presidente e da almeno dieci giorni sono stati presi provvedimenti forti a livello statale. Sono stati chiusi i parchi cittadini, sono stati annullati i grandi eventi e sono state sospese le lezioni nelle scuole. Per contrastare questi provvedimenti Bolsonaro dovrebbe avere il Congresso dalla sua parte, ma non è così. Sta vivendo un isolamento politico molto forte. A livello mediatico però queste sparate stanno sortendo un po’ di effetto, ci sono luoghi in cui la gente che lo sostiene ha ricominciato ad andare in giro. La cosa paradossale è che vedi da un lato Bolsonaro con questi proclami e poi dall’altro lato si dice che alcuni gruppi criminali che controllano le favelas stiano pattugliando le strade per non fare uscire la gente. Il Brasile continua ad essere un paradosso: la favela è militarizzata, i “trafficanti” non fanno uscire le persone in modo che il virus non si diffonda, e Bolsonaro dice che se fosse per lui riaprirebbero le scuole.

C’è grande preoccupazione per le tantissime persone che in Brasile vivono in strada.

Si, la preoccupazione è tanta. La maggior parte dei brasiliani non ha un’assicurazione sanitaria, ha accesso solo alla sanità pubblica, che in Brasile non ha le strutture per reggere questa emergenza. I letti sono concentrati negli ospedali delle grandi città, mentre ci sono aree interne totalmente non coperte e molti posti di terapia intensiva si trovano nelle carissime strutture private. Conosco tante realtà che lavorano con persone che stanno in strada e sono veramente in emergenza. Penso per esempio all’Arsenal da Esperança, la più grossa comunità di accoglienza della città di San Paolo, rivolta a persone senza fissa dimora. All’Arsenal si stanno attrezzando, hanno costruito un tendone interno per gestire gli accessi e la distanza tra gli ospiti, chiedono maschere, chiedono aiuti. Oggi le 1.200 persone, che tutti i giorni entravano e uscivano da questo gigantesco dormitorio sono isolate, chiuse dentro all’Arsenal, per evitare il più possibile il contagio. A San Paolo i numeri della popolazione di strada sono allucinanti, più di 33.700 secondo le stime. Penso anche al mio amico prete, un folle, che seguivo quando andava a sostenere la gente della Cracolandia, il quartiere del crack di San Paolo. Lui continua ad andare lì tutti i giorni, e la vita nella Cracolandia continua come se nulla fosse. Le persone si radunano a comprare e consumare il crack, ed è possibile che questo virus finisca per decimare quei gruppi, che vivono come se la cosa non li toccasse.

Come ci si sente in questi giorni a stare lontani dall’Italia?

Pensare all’Italia da lontano è stato molto difficile sin dall’inizio. La cosa strana è che, avendo vissuto questa cosa attraverso i media, sono entrato subito in una fase di grande allarmismo, mentre invece chi era a Milano mi diceva che la vita andava avanti, che la gente ha continuato a farsi gli aperitivi fino all’ultimo giorno. Io fin da subito mi sono impuntato con i miei genitori perché stessero in casa, perché non vedessero mio fratello che, come tanti, all’inizio minimizzava il problema e continuava la sua vita di sempre. Qui in Brasile siamo quattro ore indietro rispetto all’Italia e io tutti i giorni, appena dopo pranzo, mi collego nell’attesa che escano i numeri della Protezione Civile sulla Rai. Il mio primo pensiero quando mi sveglio alla mattina è guardare la chat di famiglia per vedere se tutti stanno bene, guardare se i miei genitori e i miei fratelli hanno scritto. La mia preoccupazione è quella di chiunque abbia genitori anziani. Su questo mi sento molto fortunato. Mia mamma è stata male nei mesi scorsi, ma per fortuna hanno escluso all’ultimo che si trattasse di una cosa grave. Un calvario di due mesi di esami che si è concluso prima dell’epidemia. Mio papà, che è medico, è andato in pensione a ottobre e oggi è lontano dagli ospedali dove ha lavorato una vita e dove ora si ammala e muore tanta gente. In questo momento la preoccupazione gigante che abbiamo sono i miei nonni, che sono molto anziani e le cui condizioni di salute non sono buone. Chi li accudisce sono due badanti che entrano, escono di casa, si muovono per la città con i mezzi pubblici. Mia nonna ha la febbre da circa due settimane. Stiamo cercando di trattenere mio padre che vuole andare da loro. È strano, perché l’anno scorso i miei li sentivo pochissimo, una volta ogni due settimane. Quando a dicembre sono rientrato qui dall’Italia invece avevo una sensazione strana, ho pensato tanto ai miei, alla loro età, alla mia distanza. Già prima di tutto questo, di questa pandemia, pensavo che, forse, non voglio più essere così distante. Questa sensazione del “chissà quando torno”, “chissà se li rivedo” ce l’avevo molto forte anche prima.

Come significa questo periodo per un fotografo di strada come te?

Io sono molto combattuto. Al momento non ho servizi assegnati, non so se riuscirei a vendere i miei scatti e non ho nessuna grossa agenzia alle spalle che mi tuteli, quindi per ora ho scelto di non uscire e non fotografare. Per tutelare me stesso e anche gli altri. Vorrei molto uscire in strada e lavorare. Ma mi sembra che sia un po’ da irresponsabili. Vorrei fotografare quello che fotografavo prima, vorrei raccontare i grandi personaggi che non hanno paura e che stanno sostenendo i più fragili. Vorrei raccontare, che ne so, le chiese evangeliche che sono state chiuse e che Bolsonaro vuole riaprire, vorrei raccontare la quotidianità delle favelas o delle periferie dove la gente fa fatica stare a casa, perché le case sono spazi poco abitabili. Mi sto trattenendo. In questo momento, secondo me, se uscissi a fare delle foto lo farei per me, per il mio ego. C’è già gente molto valida che lavora sull’emergenza, che è entrata addirittura a documentare gli ospedali. Le foto ai luoghi deserti, belle ed evocative sì, ma sono già state fatte. Ora è il momento in cui uno deve cercare di essere un po’ meno egoista, meno concentrato su di sé, meno desideroso di portarsi a casa la foto forte da postare su qualche social. Molti altri fotografi, confinati a casa, si stanno autofotografando. Non so se ho voglia di farlo. Boh. Mi sembra una roba un po’ da fighetti. Vorrei provare a lavorare un po’ meno sul mio ego. Vorrei raccontare il mondo che c’è fuori, o piuttosto come me lo immagino, non me stesso dentro casa. Anche perché se posso rimanere a casa sono comunque un privilegiato. Vorrei fare un passo indietro rispetto a me, vorrei mettermi meno al centro. A questo punto trattengo le energie e la salute per quando tutto questo finirà e ci sarà bisogna di raccontare il dopo, un mondo sicuramente diverso, le ripercussioni gigantesche di questo periodo. Per ora rimango a casa ma sono molto incazzato. È una roba un po’ banale, ma sono incazzato. Principalmente con questo sistema, con questo egoismo capitalista. A Milano tanta gente fino all’altro giorno affollava i mezzi pubblici per non perdere il lavoro, perché molte imprese non hanno chiuso, mettendo in situazioni di estremo rischio i propri lavoratori, qui in Brasile succede lo stesso se non di peggio. Questa domenica i sostenitori di Bolsonaro hanno manifestato in una processione di macchine perché riaprano i centri commerciali.

Da fotografo come ti immagini Milano ora?

Me la immagino molto bella. Me la immagino completamente vuota. Mi immagino un sacco di controlli, da quello che mi hanno detto. Mi immagino un sacco di gente che sfreccia in bici o in motorino per consegnare cibo. Un amico di qui voleva tornare in Italia per fotografare Venezia. In questo momento forse vedi i lati positivi, anche delle città. Soprattutto di quelle consumate dal turismo, che si svuotano. L’acqua torna cristallina, gli animali si appropriano dei parchi. Forse c’è anche della bellezza, non so. Penso che sia il pensiero di tanti, mi chiedo cosa impareremo da tutto questo, quando finirà.

Come passi le tue giornate in isolamento Luca?

Non sto riuscendo a dormire molto bene e mi sveglio molto presto. L’ultimo periodo dell’occupazione per me è stato fisicamente molto impegnativo. Andavo lì tanto, avevo sempre un sacco di attrezzatura sulle spalle, tornavo a casa, editavo le foto, facevo circolare i miei scatti. Arrivato a sera crollavo. Per me è drammatico non andare in giro a scattare. Arrivo a sera e non sono stanco. Sto cercando di riorganizzarmi il tempo, tanti fotografi lavorano sul proprio archivio in questo momento. Riprendere i progetti, riguardare foto non selezionate, pensare ai progetti di lungo periodo. Mi piacerebbe pubblicare un libro su San Paolo, perché qui ho fotografato veramente di tutto: la strada, la settimana della moda, la comunità italiana, la resistenza indigena, ho ritratto nella forma più umana e rispettosa possibile i consumatori di crack. Tanti mondi possibili di questa città. Poi studio. Studio storia della fotografia, sto migliorando e ampliando un corso di fotografia documentaria che avevo tenuto l’anno scorso, mi sto costruendo un archivio di fotografie degli autori più disparati. Sto passando tanto tempo parlando con la gente, tantissimo con l’Italia. Ci sentiamo via Zoom, via WhatsApp. C’è una chat di fotografi dell’Amazzonia, con cui sta nascendo un bel progetto: scambio di materiali, confronto su testi, idee nuove, revisione collettiva sui progetti vecchi. Potenzialmente è un tempo super prezioso, ma è anche una questione di disciplina. Mi sto anche allenando in casa perché hanno chiuso il mio parchetto preferito sotto casa, mi sono costruito una sbarra per fare le trazioni, attaccata alla porta, speriamo che non crolli.


8 aprile 2020 – Messaggio di Luca.

È passata appena una settimana da quando Andrea mi ha fatto questa intervista e in una settimana sono cambiate molte cose. Bolsonaro, isolato dal suo stesso governo e criticato da tutti i media nazionali ed internazionali, è riapparso in televisione e questa volta ha parlato del virus non più come “banale influenza” ma come “la maggiore sfida della nostra generazione”.

Qualche giorno fa si è spento mio nonno, un personaggio incredibile, il capostipite della mia famiglia. In questo momento di isolamento, il grande dolore è nostro ma soprattutto di mio padre, di non aver potuto stargli accanto, fino all’ultimo.

Dopo mille dubbi ho deciso che uscirò di casa e mi recherò all’Arsenal, il dormitorio che oggi ospita in isolamento un migliaio persone di strada. Lo farò con tutte le precauzioni del caso. In questo momento credo che vadano raccontate le storie di chi è in prima linea per le altre persone, quelle meno fortunate, e qui in Brasile si tratta di tanta gente.


Foto ☉☉Luca Meola – San Paolo, Brasile, 2020

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