Temi
  • Giovani
  • Partecipazione
  • Genere
  • Inclusione
  • Comunità
  • Migrazioni
  • Lavoro
  • Scuola
  • Innovazione
  • Welfare
  • Dipendenze

Un due tre stella!

  • Aprile 2020

In questi giorni difficili ci siamo chiesti quale pensiero potesse avere Codici su quello che sta succedendo. Ci siamo risposte che è ancora presto, non abbiamo avuto modo di parlarne insieme, stiamo vivendo in una dimensione più privata, viviamo condizioni molto diverse e abbiamo sensibilità differenti.
Per questo vogliamo valorizzare tutta questa diversità, componendo un racconto collettivo di come stiamo vivendo questi momenti. Sarà il punto di partenza per il prossimo numero della rivista codici404.


Un due tre stella!
Cristina Cavallo

Carico la lavastoviglie, la faccio andare, la svuoto. Poi ricomincio. Passo uno straccio imbevuto d’alcool su tutte le superfici che utilizzo. Poi ricomincio. Lavo le tute e i pigiami, i calzini e le mutande. Li stendo. Li raccolgo. Li indosso. Poi ricomincio. Apro le finestre e faccio arieggiare la casa. Passo l’aspirapolvere e lo straccio. Scelgo cosa mangiare il giorno dopo, metto in ammollo i legumi, cucino, mangio. Ricomincio.
Tutto molto più frequentemente di quanto facessi prima. Non mi lamento, ne faccio una parte di questa nuova routine. Ma mi dico, e mi ripeto, ricordati di pensare a quante donne hanno sempre fatto solo questa vita. Le tue nonne, in parte, tua madre, in parte. Ma sempre troppo. E non solo per se stesse, ma per tante bocche e tante braccia, senza sosta. E chissà quante lo stanno facendo adesso, mentre lavorano da casa, continuano a lavorare in casa, come hanno sempre fatto. La quarantena di alcune persone che conosco la immagino dentro un fortino fatto di pentole, bambinx che chiedono attenzioni, vestiti da lavare, attenzioni igieniche in più da tenere, regole da far rispettare, nonnx e baby-sitter da convocare, finché si poteva.
In confronto, questa casa vuota sembra una distesa di libertà e felicità. Quello che la sera sembra il silenzio dentro cui rimbombano tutte le mie preoccupazioni, quasi come un lavandino che perde e ne senti scendere le gocce una alla volta, in realtà è un silenzio che mi permette di riposare, telefonare, vedere una serie tv, buttarmi sul divano, piangere, darmi un piano per domani, passare il silk-e-pil. È un silenzio che mi ricorda che, se è vero che nessuno mi tiene la mano la sera o mi ricorda che quella cosa lì sulla sedia non è un cane, ma un cappotto che non metto da giorni, è anche vero che non sto discutendo, litigando, gridando. Sono l’unica responsabile del mio benessere fisico, posso isolarmi completamente, evitare i contatti. Non mi ritrovo, come tante amiche mi hanno raccontato, a rimproverare il fidanzato perché insiste nel sottovalutare l’emergenza o a litigare con il marito che nei giorni in cui dilagavano i contagi, continuava ad organizzare uscite con gli amici.
Ecco, nelle ultime settimane ho vissuto costantemente questa duplicità, nel guardarmi. Trovare i punti dove fa più male, poi metterli in prospettiva, senza sminuire quello che sento e come mi fa stare, ma cercando di capire se da più lontano lo riesco a vedere meglio, pulire la polvere che nasconde quegli aspetti che lo rendono migliore, anche se fa male, e farmene qualcosa di buono.
Niente di nuovo, è una cosa a cui sono abituata. Stavolta, però, questo cambio costante di sguardo è arrivato con una potenza centuplicata dalle circostanze, rinforzata dalle preoccupazioni per la situazione di emergenza sanitaria e dal fatto che ci siamo ritrovate tutti nelle stesse condizioni extra-ordinarie, senza che le nostre risorse di partenza, per affrontarle, fossero le stesse.
In questo continuo dentro-fuori, ho sentito il mio pensiero come una di quelle big bubble che da bambina tiravo fuori dalla bocca tendendole in lungo, tirando fino al limite massimo un filo di gomma da masticare rosa. A volte riuscendo a non farlo spezzare, rimettendolo in bocca, vittoriosa. Altre volte, vedendolo rompersi in piccoli filamenti sulle mie mani.
Ecco cosa ho trovato dentro.

Sono pronta a tutto

Sono via da casa da tredici anni, da quella casa, in Sicilia, in cui sono nata e cresciuta e in cui vive la mia famiglia. Ho cambiato un po’ di città, ho incontrato e salutato molte persone, tante amicizie, vedo i miei genitori due o tre volte l’anno, fino a settembre vedevo anche uno dei miei fratelli, il più piccolo, con la stessa frequenza. Poi si è trasferito a Milano e in questi giorni abbiamo spento le sue candeline su skype. Mai l’avrei immaginato.
Ho condiviso parecchie case, portato la mia vita dentro scatoloni in stanze di varie dimensioni e condizioni di salubrità, avuto minuscole cucine in cui strette ci ammassavamo per stare insieme, in altri case addirittura un terrazzino. Vivo ancora in affitto, in una casa in condivisione in cui adesso sono da sola.
Sono abituata alle distanze, alle assenze, alla solitudine, alle telefonate, alle skype (che mi hanno ricordato un po’ l’erasmus e quando per chiamare fuori dall’Italia si pagava). Sono abituata ad avere le persone che amo lontane da me, a ricordarmi che me ne sono andata, a ricordarmi che se ne sono andati, hanno cambiato città, dovrei andare a trovarli quest’anno, a pasqua che facciamo? ma come, quest’anno resti così poco?
Sono abituata, questo è il cerchio immaginario dentro cui vivo e che ridisegno spesso. La mia casa, una casa tanto carina, come diceva la mia canzone preferita di quando ero bambina. Avevo due anni e mamma me la cantava mentre io e lei vivevamo a Milano, in una casa in condivisione, mentre finiva il suo master e papà ci aspettava in Sicilia.
In questa casa tanto carina, senza soffitto e senza cucina, c’è una costante di nostalgia, di ricordi e di desideri, di rivedersi, parlarsi, incontrarsi. Immagini del mare e di luoghi assolati che ormai non vedo mai. E che mi sembra di rivedere certe mattine quando ho meno forze.
Dentro la mia casa tanto carina, ci sono molte paure, ma la vita corre veloce e alle paure si ha poco tempo per pensare. Ci sono i dolori degli altri. Dentro il cerchio, c’è sempre stata la sofferenza di mia madre, così felice di vederci dispiegare le nostre vite in luoghi, chissà, pieni di opportunità e così tremendamente infelice di averci lontani. C’è il senso di colpa per averli lasciati, c’è quel piccolo cassettino con sopra l’etichetta che dice “e se dovesse succedere qualcosa?”.
È un pacchetto completo. La mia vita è così da anni. Sono pronta.

Non sono pronta a niente

Poi è successo. Il tempo si è compresso rapidamente, come lo spazio che mi circonda e in cui adesso non posso neanche più camminare, che di solito mi aiuta tanto bene a ricentrarmi. Con l’epidemia covid-19 mi sono ritrovata a confrontarmi con la mia scelta di vita di migrazione consapevole e privilegiata, andare via, lasciarli lì, sparpagliare gli affetti, essere perfino felice di avere una vita mia, lontana.
Poi, come quando giocavamo a un-due-tre-stella! e dovevi rimanere ferma, ferma nel punto in cui sei riuscita ad arrivare, non si muove più nessuno e ci si guarda. Mica puoi più muoverti, ti guardi da lì. Sono rimasta ferma qui, per un tempo indefinito, a km di distanza dalle due persone che forse, con tutte le loro contraddizioni, restano sempre tra le più importanti della mia vita. Chilometri non nuovi, ma adesso impercorribili. Se serve non ci possiamo incontrare, se stiamo male non ci possiamo aiutare, se abbiamo paura non ci possiamo abbracciare, se abbiamo voglia di ridere non possiamo farlo senza che il telefono ci ricordi che siamo lontani. Al contrario, al telefono l’apprensione sale, senti un colpo di tosse e tremi impercettibilmente. Senti che si parla di chi ha più di sessant’anni come di carne da macello. Loro sono lì, senza di noi, carne da macello anche loro? Si laveranno le mani? Apri il cassetto del “e se dovesse succedere qualcosa?” e vedi cosa c’è dentro.
Poi si ammala un’amica, tra le più care, è giovane ma questa roba è forte, non succede niente ma intanto le passa sopra un tir. Quanti anni abbiamo passato lontane, eravamo amiche d’estate, passavano inverni e primavere lunghissimi prima di rivederci, ci scrivevamo lettere. Quanti anni di distanza, crescendo, al liceo, all’università, mai insieme. Questa piccola normalità di esserci ritrovate a Milano da pochi anni. Ma questo virus chiude le porte. Eccolo di nuovo, ancora più stretto questo spazio.
Poi penso a uno dei miei fratelli, è un chimico farmaceutico, da quando è cominciato tutto continua a pendolare verso Novara, non chiudono, e quando riducono le presenze non lo fanno per gli operatori di laboratorio. La sera fa sport in casa, salta la corda in balcone, controlla che il respiro sia a posto, io cerco di non pensare alla sua asma, mi ricordo che ha un sistema immunitario eccezionale. Ci vorrei quasi parlare con questo sistema immunitario, chiederglielo se è veramente eccezionale.
Poi si ammassano tutti dietro la porticina di questo spazio, c’è l’altra cara amica, lei è tornata in Sicilia a settembre. Quando tutto è iniziato qui, mi sollevava il pensiero che fosse al sicuro. Invece anche lei è lì, che si fa spazio tra i miei pensieri e la voglia di abbracciarla, rivederla, che torni presto a Milano per andare al cinema insieme.
Sono tante, persone trasformate in pensieri, prive di corpo e solidità. Il virus si sposta e allora si avvicini a chi vive in Svizzera, in Spagna, a Bruxelles. Pezzi della mia vita come tiri al bersaglio. La porta della mia casa tanto carina non regge più.

Non ero pronta.

Mi ritrovo così, stretta nel mio cerchio che si è fatto stretto, dolorante, facendomi spazio con i gomiti per serrare le mascelle, non piangere, mettere degli occhiali buffi mentre faccio una videochiamata. Lavorare, non pensare, non pensare troppo, concentrarsi su quello che c’è. Cosa c’è? Una casa vuota, nel pieno di un’emergenza epidemiologica, con ancora parecchi mesi davanti da gestire.
Non ero pronta, a pensare ai pensieri più bui, ma doveva accadere.
Rimetto la big bubble in bocca, anche se si è spezzata. Mi ricordo di M. che è rimasto dodici anni in Italia senza documenti prima di rientrare a vedere la sua famiglia. Penso a B. che due mesi fa mi diceva che ha promesso a suo figlio di sette anni, che troverà un modo per farlo arrivare in Italia.
La casa sarà pure vuota, ma di storie ne conosco tante e da ciascuna ho da imparare. Non sono pronta, ma tanto non mi serve, non posso andare da nessuna parte.

Ho scritto questo pezzo il 25 marzo 2020. Il tempo sembra correre più del solito, lo sento dire a tutte le persone con cui parlo. E se guardo indietro mi trovo d’accordo. Rileggendomi, sembra un racconto di un anno fa, in questo avanzare settimana dopo settimana imparando a sostare in questa situazione. Le persone guariscono, altre se ne ammalano, se cambia l’energia che mi muove ogni giorno, rimane immutata la fatica della separazione e della lontananza che tutte e tutti in questi giorni stiamo sperimentando. 


Foto ☉☉ Aragonite – Primary Mineral – Smithsonian Open Access

Pirite, Grafite, Marcasite, Calcite, Aragonite e Quarzo sono alcuni tra i minerali accomunati dalla stessa origine: il polimorfismo ricostruttivo. È la reazione che permette la riorganizzazione praticamente completa della struttura cristallina. Questo tipo di trasformazione richiede una grande quantità di energia, non è facilmente reversibile ed è piuttosto lenta. Una metafora di quello che stiamo percependo in questi giorni.
Le immagini vengo dalla Smithsonian Open Access che un mese fa ha resto disponibili 2,8 milioni di immagini e dati in CC0.

Ricerca immagini a cura di Camilla Pin Montagnana

CC0
Condividi
  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn