Dal finestrino opaco il fiume Po si intravede attraverso le fessure metalliche del ponte ferroviario che unisce Lombardia ed Emilia-Romagna. Il confine regionale segnala anche l’inizio di un nuovo paesaggio. Ai campi coltivati della bassa lodigiana fa seguito un intreccio venoso di infrastrutture, fabbriche e ciminiere che regolano il traffico di ingresso a Piacenza. La città, storica terra di confine, ha da sempre una posizione geografica strategica. Da qui passano le arterie stradali che portano verso il mare, verso le principali città italiane e oltre le Alpi. Per questo, dalla metà degli anni Novanta, l’amministrazione comunale ha spinto affinché diventasse “la capitale della logistica”, almeno del Nord Italia. Dall’alto, a fianco dei quadrati rossi che compongono il centro storico, si nota una superficie più grande, grigia e rettangolare: è il polo industriale e logistico della città.
L’automobile di Alessandro Pigazzini, responsabile dell’ufficio stranieri della sezione locale della CGIL, passa accanto allo stabilimento di Ikea. Per percorrerne un lato, a una velocità di 50 chilometri orari, ci mette circa 2 minuti. A Piacenza, Ikea ha il suo Deposito Centrale di smistamento merci per il Sud Europa, ma nessun punto vendita. Non è la sola impresa ad avere qui il suo hub logistico. Per far funzionare il settore, c’è bisogno di chi guida i camion — tantissimi camion — ma soprattutto di manodopera in magazzino. «Le attività sono in gran parte automatizzate, quindi chi sposta le merci lo fa attraverso muletti e altri macchinari. In ogni caso il carico lavorativo è molto alto», spiega Alessandro. Lavorare nella logistica significa inoltre occuparsi di organizzare gli inventari e gestire i flussi in entrata e in uscita.
I dati di Infocamere dicono che una persona su cinque nella provincia di Piacenza lavora in questo ambito – e i numeri sono da anni in crescita. Sul totale delle persone occupate, la CGIL stima che la componente straniera arriva al 90%. Mattia Motta, dell’ufficio stampa, spiega: «Sono in gran parte persone arrivate in Italia da poco, molte delle quali sono uscite dai centri di accoglienza straordinaria. Sono sia uomini che donne a cui, per lavorare, non è richiesta una formazione specifica». Adesso siamo dentro la sede del sindacato. L’ufficio stranieri dovrebbe essere chiuso, invece brulica di persone. In sala d’attesa le persone portano documenti da compilare e domande a cui cercano risposta. Se sei una persona di origine straniera in Italia da poco, devi imparare ad aspettare.
Dalla finestra della sala d’attesa si vede una caserma, una delle tante nella città delle tre c: “chiese, caserme e casini”. Dietro la caserma c’è la Questura, il cui ingresso rappresenta uno spazio di confine. Ogni giorno file di persone aspettano un appuntamento. Negli ultimi tempi le file a volte sono diventate accampamenti notturni. Ci sono persone che richiedono protezione internazionale, ma la maggior parte è in Italia da tempo e un lavoro ce l’ha già. Aspettano soprattutto il rilascio o il rinnovo dei permessi di soggiorno.
La legge – 286 del 1998 – prevede un’attesa di 60 giorni per il rilascio, il rinnovo o la conversione del permesso dalla data di presentazione della domanda. L’attesa reale a Piacenza, come in altre parti d’Italia, è di diversi mesi: «Oltre al fatto che ti danno 5 o 6 mesi di attesa per l’appuntamento, la Questura spesso non rispetta gli appuntamenti», ci racconta Samake Sekou, presidente della comunità maliana di Piacenza. A causa di queste attese e delle incertezze dei diritti, il Ministero dell’Interno ha emanato numerose circolari al fine di far valere – almeno sulla carta – gli stessi diritti derivanti dal possesso del permesso di soggiorno anche a chi possiede solo la ricevuta della richiesta di rinnovo del permesso o della richiesta di primo rilascio. Sono, ad esempio, il diritto al lavoro, al beneficio della disoccupazione e della previdenza sociale, l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, la mobilità all’interno del territorio italiano, la possibilità di recarsi all’estero con il passaporto e di transitare nei paesi Schengen oppure la possibilità di ottenere il nulla osta al ricongiungimento familiare.
Eppure non è così. «Con le sole ricevute molti di noi non possono fare nulla in Italia. Benché la legge lo espliciti, nella realtà la ricevuta non è sufficiente per convincere molte aziende ad assumerti. Spesso succede che, anche se hai un lavoro, nessuno ti permette di firmare un contratto di affitto di una casa. Questo è un problema gravissimo che porta molte persone in uscita dai centri di accoglienza a dormire per strada, anche se hanno un lavoro» aggiunge Samake.
Le sedi territoriali di CGIL e CISL distano poche decine di minuti a piedi dalla Questura. Nei mesi scorsi questa distanza si è ulteriormente accorciata grazie a un processo di mobilitazione che ha coinvolto i sindacati confederali e le diverse comunità straniere locali in un percorso che ha portato alla stesura della Carta di Piacenza. Un documento che denuncia la precarietà costante delle condizioni di lavoro, rivendicando anche i diritti della popolazione straniera. La Carta chiede un cambiamento radicale delle prassi, dei tempi e delle modalità con cui la Questura gestisce le pratiche di rilascio e di rinnovo dei permessi di soggiorno.
Il documento si rivolge anche alla Prefettura, esigendo che si affronti a livello territoriale la problematica specifica del mancato riconoscimento della ricevuta del permesso. I sindacati, in particolare gli uffici stranieri, hanno guidato il processo. Ci spiega Alessandro Pigazzini: «Nei mesi scorsi le istanze che raccoglievamo erano sempre più numerose. Le abbiamo portate in Questura in una logica di confronto, ma le cose sono cambiate quando colleghe e colleghi della FILT-CGIL, il sindacato della logistica, sono venuti da me dicendomi che le persone in fabbrica erano in collera e volevano fare una manifestazione di protesta. La logistica è un settore in cui lavorano moltissime persone neo-arrivate in Italia o comunque arrivate da poco tempo. Per questo, il problema dei ritardi è particolarmente sentito».
La Carta di Piacenza è stata firmata l’11 marzo 2023 dai sindacati e da numerose realtà, dalla Comunità Islamica al Tempio Sikh, alle associazioni di 15 paesi, fino a studenti e studentesse di origine straniera. Il percorso è partito nei luoghi di lavoro e si è sviluppato in incontri bilaterali e assemblee con tutte le rappresentanze. «Sono a Piacenza da più di 20 anni», racconta Norma Elisabeth Villalba dell’associazione ecuadoriana, «e dal 2006 ho il permesso di soggiorno illimitato. I miei figli mi hanno raggiunto da qualche anno, ma hanno molti più problemi di me. La situazione tipica è che ricevono il permesso di soggiorno quando è già scaduto».
Villalba non ha seguito direttamente il processo di costruzione della Carta, mentre Flor Bravo sì: «Con me c’erano almeno altre dieci persone dell’associazione. La prima assemblea è stata molto bella perché la sala era piena. Ognuno parlava dei propri problemi, dei propri bisogni ed erano sempre gli stessi. Dopo altri due incontri il documento era pronto». Amela e Arnel Nasić hanno fondato a fine 2019 l’Associazione dei Giovani Bosniaci. Sono nati in Italia e hanno la cittadinanza italiana. Spiega Amela: «Il problema del permesso di soggiorno c’è anche nella comunità bosniaca, anche se non ci riguarda personalmente. Ogni volta che passo davanti la Questura, vedo la fila di persone all’ingresso. Non è giusto. Per questo abbiamo deciso di partecipare alla mobilitazione».
Le istituzioni hanno cominciato a rispondere alla Carta di Piacenza. Nello scorso maggio la Prefettura ha convocato un incontro interlocutorio tra le parti, alla presenza della Questura. Successivamente, si è svolto un primo tavolo tecnico per affrontare le questioni dei tempi, della validità delle ricevute e del rilascio dei codici fiscali alle persone neo-arrivate. Un primo esito è il dimezzamento dei tempi delle procedure di valutazione dei documenti al momento della rilevazione delle impronte digitali da incorporare nel permesso di soggiorno.
I tavoli proseguiranno, ma la mobilitazione ha già ottenuto un risultato: spezzare la solitudine e creare un canale di contatto tra diverse associazioni, aumentando la consapevolezza delle comunità straniere. Questo non basta, come spiega Sekou: «È stato un momento eccezionale, uno spazio di inizio. Se non ci ascolteranno, ciò che si è attivato attorno alla Carta di Piacenza sarà utile per poter farci sentire meglio, per poter protestare ancora e per poter eventualmente scendere in campo».
Lorenzo Scalchi e Valentina Vivona
Foto ☉☉ Francesca Pavanel, SP65 località San Quirino (PN), Friuli-Venezia Giulia