Per più di dieci anni ho pensato di soffrire di colon irritabile e di gastrite cronica. Ho avuto mal di pancia quasi tutti i giorni, basso ventre sempre gonfio e difficoltà a digerire. Avevo un prurito anale che non andava mai via e che mi sono tenuta dai 26 anni in poi. A 17 anni, quando ho interrotto l’attività agonistica in ginnastica artistica, le mestruazioni sono diventate dolorose e abbondanti. Finché mi allenavo tutti i giorni, la sindrome mestruale non sapevo cosa fosse. Negli ultimi tre anni il ciclo è diventato ingestibile, sempre più abbondante, doloroso e lungo. C’era infine quel bruciore vaginale durante i rapporti, più o meno presente, più o meno intenso, più o meno gestibile. Dopo i rapporti mi veniva spesso una vaginite, puntualmente trattata dai medici con antibiotici. Tuttavia, col senno di poi, posso dire che quasi certamente non fossero infezioni batteriche o fungine, ma infiammazioni. Ho fatto ripetute visite ginecologiche ed esami, ma niente: per la medicina io ero sana come un pesce. Dicevano che era solo stress.
Non so dire esattamente per quanto tempo mi sia portata dietro la vulvodinia in forma lieve. La diagnosi è arrivata solo nel 2020, quando la sindrome è diventata acuta e gravissima: un bruciore costante alla vulva e scosse elettriche che partivano da un punto profondo e indefinito della pancia sino ad arrivare alle piccole labbra. Ho ottenuto la diagnosi quando ho detto basta e ho deciso di ascoltare il mio corpo, malgrado quello che la medicina dicesse. Volevo una risposta perché, se a 20-30 anni si sta sempre male, qualcosa che non va c’è. Alla prima diagnosi è seguita, dopo altri otto mesi di visite ed accertamenti, quella di endometriosi, ossia la presenza di tessuto simil-endometriale in sedi extrauterine. Ricevere diagnosi corrette significa avere la possibilità di avviare un percorso terapeutico adeguato. Da circa un anno curo la vulvodinia con farmaci, integratori, fisioterapia del pavimento pelvico e norme comportamentali. Tengo a bada l’endometriosi con una dieta antinfiammatoria e un integratore che modula i livelli di progesterone. Sto meglio. Il bruciore vulvare spontaneo e il prurito anale sono scomparsi, le mestruazioni non sono più invalidanti, le gastriti e le coliti si sono dissolte. Non mi ricordavo più cosa volesse dire vivere senza mal di pancia.
Sembra quasi una storia a lieto fine e in parte lo è. Tuttavia, mi sono chiesta come sarebbe andata se avessero preso sul serio i miei sintomi, se avessero dato uno sguardo d’insieme, anziché focalizzarsi su un solo organo, se io stessa non mi fossi obbligata a sopportare tutti quei disturbi sommati insieme. Oggi per la medicina sono diventata un caso interessante: negli ospedali pubblici non mi vedono mai in meno di cinque tra medici e specializzandi. Cosa resta del sesso con la vulvodinia? È soggettivo perché dipende dalla gravità della sindrome e dalle risorse personali che si hanno. Il mio primo terapeuta diceva sempre che il sesso si impara facendolo. Oggi, analogamente, posso dire che il sesso con la vulvodinia si impara facendolo. Nel senso che bisogna capire ed accettare quello che si può e non si può fare, comunicare, gestire il dolore, fermarsi prima di farsi male davvero, curare gli effetti collaterali del sesso. È necessario imparare ad ascoltare e a rispettare le proprie paure, legittime perché per esperienza si sa già che si sentirà dolore. La variabile è solo quando e quanto. Dall’altra parte serve una persona con altrettante capacità di ascolto di sé e del prossimo, di comunicazione diretta e di comprensione della peculiarità della situazione. Queste persone sono una rarità, perché quasi nulla in questo sistema sociale e politico educa ad accettare malattie e vulnerabilità come parti integranti della vita e delle relazioni di cura. Molte di noi restano, o scelgono di restare, sole e bisogna imparare ad abitare la solitudine, senza trasformarla in isolamento. Se ripenso alla ragazzina e giovane donna che ero, sono colta da un’infinita tenerezza. Sempre in preda a qualche disturbo pelvico, spesso preoccupata per quei bruciori inspiegabili durante i rapporti, che portavano a mille domande: “Ma quel rapporto lo volevo davvero? Ma lui o lei mi piacevano? Eppure, mi sembrava che non mancassero eccitazione e desiderio”. Oggi so che non si trattava di un problema psicologico: c’erano un insieme di sintomi che sono stati a lungo ignorati e che avrebbero potuto essere trattati per tempo e diversamente, ma non c’era nessuno ad ascoltare, nessuno a prendermi sul serio: nemmeno io stessa.
Questo testo è parte della testimonianza che ho portato in piazza Duca d’Aosta a Milano il 23 ottobre 2021, in occasione del presidio sensibile-invisibile organizzato da Non Una Di Meno. L’obiettivo era dare visibilità e voce ad alcune malattie invisbili, dette “femminili” perché statisticamente colpiscono prevalentemente le persone assegnate femmina alla nascita (AFAB). Tra queste, le principali sono la vulvodinia, l’endometriosi, la fibromialgia e altre forme di dolore pelvico: tutte patologie misconosciute sia dalla medicina che dallo Stato e che, per questo motivo, hanno un ritardo diagnostico in media di 5-8 anni. Vulvodinia è una parola sconosciuta ai più. La vulva stessa, sede della malattia, è una parte dei genitali femminili ancora scarsamente nominata e conosciuta. Dalla medicina la sindrome è definita come “bruciore e dolore vulvare che persiste per più di tre mesi”. Una sindrome molto diffusa, che colpisce una donna (o persona AFAB) su sette nell’arco della sua vita, eppure ignorata dз medicз e dallo stato. Nel corso del 2021 molte cose hanno iniziato a cambiare. L’OMS ha riconosciuto la vulvodinia nell’undicesima revisione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11). In Italia, il movimento Non Una Di Meno ha dato avvio alla campagna sensibile-invisibile per denunciare i trattamenti medici che subiscono le donne. Si tratta di storie di violenza fisica e psicologica negli ambulatori, dove non sempre le visite avvengono nel rispetto del consenso e del corpo dolorante delle pazienti. In questi luoghi le donne subiscono spesso il gaslighting, ossia lo sminuimento dei sintomi e del dolore provato. Il ritardo diagnostico è conseguenza di anni di diagnosi errate e di cure inadeguate. Del resto il dolore delle donne, nella storia, è sempre stato normalizzato. Dal ciclo mestruale al parto, il dolore è sempre stato considerato componente intrinseca dell’esperienza corporea femminile. Nell’ambito medico le donne subiscono la stessa violenza di genere cui sono esposte nella società patriarcale: non essere ascoltate, non essere credute ed essere sminuite.
Accanto al movimento Non Una Di Meno si è costituito il Comitato vulvodinia e neuropatia del pudendo, che raccoglie le associazioni che in Italia si occupano delle due sindromi, il personale sanitario specializzato e numerose pazienti-attiviste che hanno fatto dell’esperienza della malattia il terreno di una lotta comune. Il Comitato ha intrapreso a settembre 2021 un’attività di advocacy istituzionale per richiedere il riconoscimento da parte del Servizio Sanitario Nazionale delle due patologie tra le malattie croniche e invalidanti nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Questo riconoscimento consentirebbe l’esenzione dalla partecipazione alla spesa pubblica e la possibilità di richiedere percentuali d’invalidità a seconda della gravità della malattia. Il riconoscimento istituzionale servirebbe anche a istituire pelvic unit (centri multidisciplinari specializzati nel trattamento del dolore pelvico cronico) in ogni regione d’Italia, a garantire la formazione del personale sanitario e a intraprendere la ricerca scientifica necessaria per migliorare e ampliare le possibilità di cura. L’attivismo politico, nelle piazze ed online, soprattutto attraverso le piattaforme social, ha già raggiunto l’obiettivo di far parlare della vulvodinia più che in qualsiasi altro periodo storico. Grazie alle numerose testimonianze condivise, molte donne hanno capito di soffrirne e sono riuscite ad arrivare alla diagnosi in tempi relativamente brevi. Un problema solo apparentemente individuale, come la malattia, è stato riconosciuto come politico perché è la mancanza di una prospettiva di genere e di una visione olistica della persona nella medicina occidentale la causa delle mancate diagnosi. La medicina non è un campo neutro ed imparziale. Per secoli ha considerato come metro di misura il corpo maschile, prendendo in considerazione quello femminile solo per la sua capacità riproduttiva. Nell’ultimo anno molte donne si sono esposte raccontando la propria storia di malattia affinché altre potessero conoscersi e riconoscersi. Le voci singole si sono unite in coro, per rivendicare ascolto, rispetto e tutela. Si sono cucite, e si stanno ancora cucendo, relazioni tra pazienti, personale sanitario, associazioni e movimento femminista affinché i corpi delle donne e i corpi transgender cessino di essere, per la medicina, corpi di serie B e di serie C.
Silvia Carabelli è una delle due vincitrici della call Anticorpi del 2021. Ricercatrice e attivista, è tra le fondatrici del Comitato vulvodinia e neuropatia del pudendo. Grazie al nostro contributo, ha realizzato due guide: una dedicata alle persone malate, l’altra a chi sta loro accanto. Sono disponibili qui.
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