Temi
  • Giovani
  • Partecipazione
  • Genere
  • Inclusione
  • Comunità
  • Migrazioni
  • Lavoro
  • Scuola
  • Innovazione
  • Welfare
  • Dipendenze

Spazio privato: parlare di street harassment a scuola

  • Settembre 2023

Quotidianamente le donne – e le altre soggettività marginalizzate – ricevono molestie quando varcano la soglia dello spazio pubblico. È quello che ho constatato nella mia ricerca dottorale del 2022, dal titolo: “Lo street harassment e la costruzione sociale dei corpi. Dominio e pratiche di resistenza nello spazio urbano”.

Su un totale di 1057 persone, il 77% del campione ha fatto esperienza di street harassment (in italiano: molestie di strada) almeno una volta nella propria vita. La percentuale sale all’87% se si osserva solo il dato relativo alle donne le quali, nella stragrande maggioranza dei casi, avevano meno di 18 anni quando è accaduto per la prima volta. Viceversa, nella quasi totalità dei casi, chi ha compiuto street harassment è un uomo o un gruppo di uomini percepiti come adulti.

La soglia è quella linea di demarcazione che segna l’appartenenza o meno allo spazio pubblico: è il confine tra spazio produttivo – maschile – e riproduttivo – femminile. Ho pensato alla mia tesi e a quante volte, parlando di street harassment, abbia descritto lo spazio urbano come un’arena dominata dagli uomini bianchi, etero, cis, nella quale «il potere e il privilegio maschili sono mantenuti limitando i movimenti delle donne e la loro capacità di accedere a diversi spazi» (Kern 2021 p. 26).

Fuori di casa

La mia ricerca si sarebbe dovuta svolgere nelle scuole, ma, poco prima dell’inizio della rilevazione, il Covid mi ha obbligata a ripensarla, spingendomi verso una diffusione online del mio questionario. Perciò, quando ho vinto la call Soglie, la mia priorità era entrare nelle scuole per restituire quei dati a chi, oltre ad essere il target più colpito dallo street harassment, ha più di chiunque altro il potere di cambiare lo stato delle cose: i ragazzi e le ragazze.

Ho deciso di realizzare dei laboratori nelle scuole a Roma e a Milano. Erano passati più di due anni da quando, per la restituzione dei dati del mio pre-test, avevo avuto l’ultimo incontro con ragazze e ragazzi in età scolare. Due anni che avevo passato chiusa nella mia stanza di 13mq, relazionandomi per lo più allo schermo del pc. Bisognava che oltrepassassi io stessa la soglia di quella stanza e che portassi con me la mia ricerca. Ho buttato giù una scaletta di cose che mi sarebbe piaciuto raccontare, ma fin dal principio l’intenzione è stata quella di mettere loro al centro.

Ho incontrato classi e persone molto diverse, con punti di vista vari, ma accomunate da un’apertura all’ascolto e da una predisposizione a mettersi in discussione. Anch’io ho cercato di fare la stessa cosa, cercando di avere un atteggiamento più paritario possibile, mettendole a loro agio. Ma non è stato semplice espormi e parlare ad una platea così diversa da quelle a cui ero abituata. Avevo una gran paura di annoiare. Inizialmente, ho fatto una gran fatica a memorizzare i loro nomi, per quanto cercassi di associarli a parenti e conoscenze. Una volta, mentre mi presentavo, sono andata in iperventilazione e non mi è rimasto altro che dirlo anche a loro, per riprendere fiato, e uno dei ragazzi mi ha consigliato di respirare: «6 secondi inspiri e 6 secondi espiri, prova!». L’ho fatto e ha funzionato. È stato un momento molto tenero e l’ho ringraziato.

Reagire alle molestie

Ho parlato con loro delle varie forme che può assumere la violenza di genere, delle associazioni e dei punti di riferimento che esistono per raccontare la propria esperienza e trovare supporto. Era forte il bisogno di raccontare le proprie esperienze e, da subito, sono stata travolta da una valanga di racconti, dai più ordinari ai più difficili da digerire. Mi hanno detto che quasi mai qualche persona era intervenuta in loro aiuto, né che saprebbero cosa fare per aiutare chi subisce una molestia. Ho spiegato loro che ci sono alcuni metodi per intervenire indirettamente, ad esempio distraendo chi sta compiendo la molestia facendo cadere qualcosa di rumoroso a terra e dando alla persona molestata la possibilità di guadagnare qualche secondo per svincolarsi.

C’è stata una grande partecipazione anche dei ragazzi. Hanno raccontato di episodi di molestia a cui hanno assistito, indirizzati alla propria madre, a un’amica o alla sorella, ma ci sono stati anche racconti di aggressioni che li hanno riguardati direttamente. Hanno raccontato della paura che provavano nel camminare in pubblico, che era soprattutto paura di essere picchiati. C’era chi raccontava di risse sventate o affrontate più scherzosamente e chi, più timidamente, ci teneva a dire che non si sentiva nemmeno lui sicuro ad andare in giro di sera.

Condividere

Man mano che andavo avanti è venuto sempre meno spontaneo mantenere quel tipico atteggiamento di distacco che, per timidezza e per deformazione professionale, avevo dimostrato inizialmente. Soprattutto durante i primi laboratori, ho evitato di raccontare le mie esperienze di molestie nei luoghi pubblici, ma poi me le hanno chieste e allora le ho raccontate. Mi è sembrato che farlo abbia facilitato il rapporto con loro.

Anche alla fine dell’ultimo laboratorio, mentre raccontavano delle loro esperienze serali sui treni, ho raccontato di una volta in cui, tornando in treno alle 23 da Roma a Latina, mi sono seduta in un vagone in cui era seduta solo una signora. Era di spalle e io le vedevo il cappello e poco più. Man mano che il treno procedeva, ho messo a fuoco che la signora aveva le ciabatte e il cappello da mare. Era inverno, era sera ed era circondata da fogli su cui scriveva nervosamente. Ogni tanto si girava, mi fissava e si rigirava, così per tre o quattro volte.

Io, che nel frattempo avevo iniziato a chattare su WhatsApp per sentirmi più tranquilla, ho iniziato ad agitarmi e a pensare che sarebbe successo qualcosa di spiacevole di lì a breve. A quel punto la signora si è alzata e mi ha detto: «Signorina, io mi sposto e cambio vagone perché lei mi fa paura!». Durante il racconto mi guardavano con gli occhi sbarrati e quando ho concluso hanno esclamato: «Ma daiii!». Hanno anche riso un po’.

La percezione del rischio

Ogni persona ha una diversa percezione dello spazio e a volte il rischio è sovrastimato rispetto alla realtà. In alcuni casi possiamo essere anche noi a incutere paura. La socializzazione di genere allo spazio ci insegna un modo diverso di rapportarci allo spazio. Se si è uomini, tende a essere estremamente libero: di muoversi, di occupare lo spazio col proprio corpo e di farlo in un certo modo, ad esempio con le gambe aperte mentre si siede in tram. Se si è donne o parte di un gruppo marginalizzato, la modalità è più faticosa ed è una continua conquista.

Lo spazio pubblico è percepito come pericoloso perché la cultura patriarcale ci insegna la vulnerabilità, il bisogno di essere protette da un uomo. L’abitudine è quella di associare alla casa una sensazione di sicurezza, di calore, mentre delle città si ha paura. Sebbene, dando uno sguardo alle statistiche, sia la casa il luogo più pericoloso per una donna. Alle donne è stato insegnato ad avere più paura del fuori che del dentro, ma è dentro casa che si muore. Eppure «stai attenta», «non parlare con gli sconosciuti», «non vestirti così», «non tornare troppo tardi» sono solo alcune delle raccomandazioni che riceviamo quando varchiamo la soglia di casa.

Greta Calabresi


Foto ☉☉ Linda Filippini, Gavardo

Condividi
  • Facebook
  • Twitter
  • LinkedIn