Wissal Houbabi è nata nel 1994 in Marocco e cresciuta in Italia. Vive a Bologna, è una libera professionista e si occupa di cultura e arte anticoloniale. Scrittrice e attivista, si interessa di musica e di poesia. In una lunga chiacchierata ci ha raccontato, dal punto di vista di una donna figlia della diaspora, che cosa significa essere giovani, oggi, in Italia. Tra adolescenze compresse, parallelismi con la propria famiglia e con la comunità di origine e quel che ancora resta di una prospettiva aperta sul futuro.
Noi non siamo mai state giovani perché abbiamo avuto una crescita rapida. Non sono più stata una bambina da quando ho iniziato a leggere e a scrivere, perché dovevo già occuparmi della burocrazia di casa. Per me, essere giovane è stata una scelta che è arrivata quando ho maturato un’indipendenza economica e una libertà di movimento che mi garantissero di attivare finalmente la mia vita. Da quel momento in poi ho iniziato a concedermi una vaga idea di gioventù, a fare delle cose che fino ad allora mi erano sempre state sostanzialmente negate: perché sono nata femmina, perché sono nata poverissima e perché sono nata immigrata. Si tratta di un’intersezione di fattori che mi hanno esclusa dalla spensieratezza, dal divertimento adolescenziale, da una crescita graduale, dalla possibilità di fare quelle esperienze che ti permettono di maturare una tua identità. Ero troppo povera per potermi permettere qualsiasi cosa al di fuori dello spazio pubblico. Ero femmina, avevo una serie di campi ristretti da evitare per non correre pericoli. Ed ero immigrata, esclusa dalla società bianca per mano di un razzismo che non era sempre percepibile. Ho iniziato a essere giovane a 23 anni, ora sono in piena adolescenza. Ma è stata una fatica immensa creare queste condizioni, perché costruire una gioventù da adulta significa ricercare spensieratezza e divertimento mentre devi pensare a come pagare l’affitto e le bollette, e a trovare un lavoro. Prima però avevo molte più pesantezze nella vita di quelle che ho adesso.
Devo fare una premessa, perché mi accorgo spesso che sono un po’ fuori dalla norma della mia comunità. Io ho fatto un percorso che non è classico, sono una persona politicizzata e vivo le cose con una consapevolezza che mi porta a rielaborare costantemente la mia posizione. Sono stata principalmente una ribelle, e il fatto che mi voglia concedere una gioventù e della spensieratezza è un atto di ribellione. È una scelta che fanno poche persone. Ma l’adolescenza negata, l’infanzia come pesantezza, la precocità con cui siamo cresciute, penso siano degli elementi trasversali a tantissimi ragazzi e, in modo ancor più marcato, a tantissime ragazze. Se penso al razzismo, ad esempio, credo che abbiamo avuto una consapevolezza maggiore rispetto ai nostri coetanei italiani. Io, in quanto persona di seconda generazione, ho iniziato ad avere i primi ricordi della mia vita qui. E se i primi ricordi della vita sono impregnati di razzismo, diventa difficile depurare il veleno che ti cresce nelle vene. Chi ha passato i primi vent’anni in Marocco, il razzismo l’ha conosciuto dopo, con una maturità psicologica e identitaria già formata, con degli strumenti per tutelarsi. Ma se si inizia a scoprire il razzismo già in età infantile, questa cosa agisce violenza nell’intimità, si cresce con la paura, con la fragilità, con una serie di sentimenti che non sono giusti per una bambina. I bambini e le bambine italiane non necessariamente sanno che cos’è il razzismo.
Una differenza che mi viene in mente è che noi stiamo iniziando a essere partea tutti gli effetti del mercato, consumatori. Penso che abbiamo superato i nostri genitori in questo ambito, tutti adesso fanno l’università, anche se magari partono da delle condizioni fortemente scoraggianti, ma hanno potere d’acquisto. Siamo cresciute con l’urgenza di dare senso alla migrazione dei nostri genitori, quindi avevamo una responsabilità maggiore.
Se consideriamo la crisi ambientale e climatica, possiamo dire che proprio ora che stiamo iniziando a emanciparci, il mondo sta finendo. Io sono positiva solo se penso a possibili soluzioni creative. Paesi europei come la Francia e l’Inghilterra ci stanno dimostrando che, anche se arriviamo alla quinta o sesta generazione diasporica, il razzismo non sparisce magicamente. Assolutamente no. Per quanto sia necessario costruire più modelli possibile di rappresentazione, è proprio nell’essere seconda generazione che, secondo me, ritroviamo il passaggio più complesso, perché i nostri genitori sono di fatto marocchini, nigeriani, senegalesi, loro vengono da altri paesi e non fanno letteralmente parte di questo continente. Noi invece siamo parte della storia dell’Occidente, la nostra prima lingua è l’italiano, il francese o lo spagnolo, ma abbiamo ancora la possibilità di parlare quella di origine. I nostri figli parleranno molto meglio le lingue occidentali e sempre peggio la lingua di origine, se la parleranno. Quindi, saremo sempre più europei e sempre più occidentali. Sperando che la memoria sia sempre presente come memoria delle origini. La linea storica non cambia la struttura di potere, ma possiamo giocare molto di più sul piano creativo, siamo delle persone che vengono dalla diaspora, che sono transnazionali e che incarnano più di un’identità, più di una cultura, più di una visione del mondo. Abbiamo dovuto affrontare la visione stato-nazionale, essere noi stessi e percepirci nella diaspora, dovendo scegliere se essere marocchine o italiane. Abbiamo creato dal nulla la nostra identità, possiamo creare dal nulla anche un’idea di futuro. L’immaginazione non è uno spazio in cui qualcuno può entrare e avere potere su di me.
Non lo è, perché purtroppo dobbiamo rispondere sempre all’emergenza e alle mancanze. Un sentimento trasversale è la rivalsa verso tutto quello che ancora viene negato. Ma, appunto, c’è bisogno di ribaltare l’immaginario. Il mondo delle persone razzializzate è un mondo profondamente ingiusto, considerabile parte di una quotidianità e di una normalità negate. Quindi anche solo raggiungere certi standard è una grande aspirazione, però limita molto la fantasia, che invece è l’arma più potente che le nostre storie ci hanno concesso.
La chiacchierata si è conclusa con la richiesta a Wissal di consegnarci una piccola selezione di brani che possano accompagnare le riflessioni che emergono in questa intervista. Ecco i tre brani che ha scelto, accompagnati da un commento.
Buon ascolto!
Nel videoclip, il duo di origine algerina si prende la Torre Eiffel, simbolo della Francia, facendo passare sullo schermo praticamente gli ultimi duecento anni di storia che accomunano l’Algeria e la Francia, in un video simbolico così importante, così sintetico. Alcune cose non sono manifeste, ma riecheggiano di fatto nella coscienza delle persone. Questo è un brano che parla di rivalsa, e lo fa anche mettendo in scena il rapporto tossico che molti rapper hanno con le proprie economie, diventate l’esasperazione delle mancanze che hanno avuto per tutta la vita.
Di Baby Gang mi piace la rabbia, e il fatto che riporta il punto di vista di soggetti che non prendono mai voce. È molto genuino su questo. Nel brano è centrale il messaggio «non ho avuto, e di conseguenza me lo prendo». Con quali conseguenze? Baby Gang in questo momento è in carcere, e come lui sono incarcerati tanti altri rapper nordafricani, marocchini, tunisini. Perché loro dal carcere sono venuti, per diventare rapper poi. E questo sembra interessare poco alla scena hip-hop italiana, quasi fossero di un mondo a parte.
L’hip-hop è un collante, è quella resistenza creativa raccontata in «Elogio del margine» di bell hooks. Oggi mi sembra che le periferie riescano a comunicare molto bene tra loro, forse perché presentano tutte dei disagi che le accomunano. Ma sono cambiate anche in modo radicale, sono luoghi dove molte persone razzializzate sono andate a vivere per il minore costo della vita, aggiungendosi a un substrato di bianchi, italiani, poveri. Il rap italiano ha prodotto una narrazione sulla periferia e sulla vita di strada che ormai è obsoleta.
Guido Belloni è un ricercatore di Codici.
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